18 Nov Oriente e Occidente. Massa e individuo
Oriente e Occidente. Massa e individuo
Un libro che sonda le radici culturali del binomio Oriente/Occidente, accompagnandoci in un percorso ricco di riferimenti storici, filosofici e politici. Un’analisi delle identità complesse di Oriente e Occidente, che non hanno mai cessato di emularsi, ma anche di scontrarsi. Un viaggio nella storia e nell’attualità di due poli che, da sempre, si contaminano reciprocamente ma allo stesso tempo competono attraverso modelli economici e politici opposti.
L’Oriente è anima, l’Occidente è materia. Là c’è il regno del silenzio, di qua regna il rumore. “Noi” siamo concentrati sui valori e sui diritti del singolo, “loro” abitano un universo comunitario, in cui l’individuo viene educato a rinunciare a certe libertà e diritti in nome di un interesse collettivo.
Ora che la pandemia ci ha abbattuti entrambi, resta da scoprire chi si risolleverà per primo, quale modello risulterà vincitore.
Noi Greci, loro Persiani
Quando comincia a formarsi un’idea di Occidente distinto e contrapposto all’Oriente, una rappresentazione di due sistemi di valori antagonisti?
La contrapposizione, in termini di scontro di civiltà tra “noi” e “loro”, nasce con le Guerre Persiane. Da un lato la Grecia, culla dell’individualismo, gelosa dell’autonomia delle poleis e della libertà dei suoi cittadini, dall’altro il grande Impero persiano multietnico, dispotico, brulicante di sudditi obbedienti. Un’immagine fortemente ideologizzata, questa, che da Erodoto, il primo storico ellenico, si perpetra fino ad Alessandro Magno.
Spencer Davis, Atene, Grecia
Questa differenza profonda tra loro e noi si riflette anche nella religione. I Greci hanno un Monte Olimpo popolato da una pletora di divinità rissose e capricciose, ossessionate dalle rivalità, occupate a farsi dispetti: un po’ come le città-Stato di Atene, Sparta, Tebe, Delfi o Corinto. La Persia, con la religione di Zoroastro, ha una struttura delle divinità molto più gerarchica, dominata da Ahura Mazda. Qui da noi c’è il caos dell’individualismo, di là c’è l’ordine imposto dall’autorità. Anche l’imperatore persiano, del resto, è un semidio.
Eppure, come celebra Eschilo, sono le piccole città greche a prevalere, vincendo le guerre persiane al termine di mezzo secolo di scontri alterni, che durano dal 499 al 449 a.C.
Le guerre persiane del V secolo ispirano in seguito le gesta di Alessandro Magno. È l’intero Oriente che lui vuole dominare, cominciando dall’Impero persiano. E ci riesce. In una serie di offensive-lampo, questo personaggio, considerato uno dei più grandi conquistatori di tutti i tempi, arriverà fino all’India settentrionale. È il primo episodio conosciuto di occupazione-colonizzazione occidentale dell’Asia. Durerà poco, perché Alessandro è destinato a morire giovane. Ci lascia però un’eredità enorme. La sua occupazione di una vasta porzione dell’Oriente accelera tutti i flussi di comunicazione, scambio di idee, mescolanza o scontro tra religioni e valori.
Orientalismo coloniale
Per qualche migliaio d’anni e fino all’inizio del XVII secolo la Cina e l’India sono le due civiltà più ricche del mondo. Anzitutto perché sono due colossi demografici, e finché l’economia è essenzialmente agricola la ricchezza di una nazione è proporzionale alla dimensione della popolazione. Altri imperi importanti che sono sorti alla periferia di Cindia, dalla Persia agli ottomani, dipendono molto nelle loro fortune dall’essere collegati ai due giganti asiatici. L’Asia è il centro anche perché da lì parte tutto: quelle onde sismiche che sono le migrazioni di massa in cui le orde delle steppe si rovesciano verso il Medio Oriente e l’Europa annientando barriere e devastando equilibri politici.
Devid Besh, Leshan, China
Chi governa la Cina e l’India ancora nel XVI secolo non ha alcun motivo razionale per pensare che gli europei muteranno la storia dell’Asia. Poi di colpo tutto accelera e converge verso uno shock sistemico, una rottura epocale, un cambio di paradigma. L’apertura dei mercati del Nuovo Mondo, la trasformazione delle Americhe in una gigantesca succursale dell’agricoltura europea, più la scoperta di miniere d’oro e d’argento (Perù, Messico) che sconvolgono la liquidità monetaria mondiale danno all’Europa le risorse per sostenere nuove ambizioni.
Ma l’accelerazione decisiva negli eventi arriva solo sul finire del XVII secolo con la Rivoluzione industriale in Scozia e Inghilterra. Motore a vapore, telaio meccanico e tante altre invenzioni cambiano tutte le regole del gioco. È da quel momento che la marginale periferia dell’Eurasia, quel lembo di terra che si affaccia sull’Atlantico, diventa il centro del mondo. È una storia recentissima, dunque. Ma quei tre, quattro secoli al massimo in cui abbiamo veramente conquistato un dominio sul pianeta, fino a decidere le sorti di popoli molto più antichi e numerosi, lasciano un’impronta formidabile sulla concezione che abbiamo di noi stessi e su quella che gli altri hanno di noi.
Le rappresentazioni che ci facciamo dell’Oriente – della sua umanità, della sua storia, della sua cultura – si compongono in modo decisivo nell’epoca in cui andiamo a colonizzarlo. In particolare nel Settecento e nell’Ottocento, quando gli imperi dell’Inghilterra e della Francia si annettono vaste aree dell’Asia per amministrarle in modo permanente ed estrarne ricchezze.
È in quel periodo che si forma davvero la nostra idea recente del mondo a est dei Dardanelli e del Bosforo. In parte quella raffigurazione continua a influenzarci oggi. La scienza dell’Occidente comincia allora a esaminare in modo sistematico civiltà, storie, religioni e lingue orientali applicando a loro nuovi approcci e tecnologie. L’arte dell’Occidente assorbe valori, personaggi, atmosfere e paesaggi asiatici o presunti tali.
Occidentalismo: copiare i barbari
All’Università di Harvard, considerata la migliore d’America e forse del mondo, da anni uno dei corsi più ricercati dagli studenti è quello di Michael Puett, professore di storia e civiltà cinese. Gli studenti che si preparano a diventare la nuova classe dirigente degli Stati Uniti, che saranno assunti come manager dalle aziende tecnologiche della Silicon Valley o dalle banche di Wall Street, assorbono dalle lezioni di Puett la saggezza orientale.
Il buddhismo, lo zen, le filosofie orientali hanno fatto breccia nella classe dirigente. Il buddhismo piace perché offre una spiritualità senza dogmi, senza costrizioni, sena vere chiese, senza istituzioni. È nel momento in cui l’Occidente sembra aver trionfato, esportando in Asia il suo sistema economico capitalista, che viene assediato dai dubbi, da un senso di vacuità, da una caduta di valori, e nell’Oriente “conquistato” prova a trovare le risposte alle proprie angosce esistenziali.
Primavera nel palazzo imperiale dei Han, Qiu Ying, 1494-1561
La vera origine di questa attrazione di tipo nuovo verso l’Oriente dobbiamo collocarla nell’Ottocento. È proprio il secolo in cui le classi dirigenti asiatiche si convincono che il Progresso siamo noi, europei o americani, e tentano di imitarci in tutti i modi. Dall’Illuminismo nascono le due correnti principali che l’Asia adotta da noi: capitalismo liberale da un lato, socialismo marxista dall’altro. È in quella fase che a casa nostra esplode un movimento di segno opposto: il rifiuto della modernità, che si traduce in una fuga dall’Occidente. È un movimento culturale che ha tante anime. Da una parte lo ispira l’orrore per il materialismo associato alla rivoluzione industriale, il dominio dell’economia, l’egemonia della borghesia capitalistica e dei suoi valori. Dall’altra c’è anche un rigetto dell’Illuminismo, la nostalgia di un mondo dove c’è spazio per l’irrazionale, dove il sentimento prevale sulla ragione, la comunità detta legge all’individuo. La corrente più poderosa che dichiara guerra all’Occidente – e va alla ricerca di un’alternativa in Asia – è il Romanticismo.
Giappone e la cerimonia del tè
Il Giappone fu la prima nazione asiatica nell’era contemporanea a batterci sul nostro terreno, diventando uno dei luoghi della modernità più sofisticata. Ma non si è mai omologato completamente, coltiva una diversità tenace. Conosce l’arte del silenzio laddove l’Occidente è il regno del rumore. Una delle sue manifestazioni è l’ambientalismo, che non è recente bensì affonda le radici in un culto nato tremila anni fa. La venerazione dei kami, spiriti che abitano la natura. È lo shintō, religione “indigena”, ancora più antica del buddhismo. È un insieme di credenze e riti panteistici (Dio è ovunque) e animistici (l’universo intero, animali piante rocce fiumi e mari, lo stesso clima, sono esseri viventi).
Nel 1906 viene pubblicato a Boston il libro Lo Zen e la cerimonia del tè di Okakura Kakuzō, che conquista l’élite americana. È un breve trattato che spiega la cerimonia del tè, divenendo ben presto una chiave per capire l’Asia in tutte le sue dimensioni.
The Tea Ceremony, Yōshū Chikanobu, 1895
Il libro esce in una fase in cui è già esploso da qualche decennio il “giapponismo”, una moda che è in crescendo dalla fine dell’Ottocento soprattutto a Parigi. Nella pittura si ispirano in vari modi al Sol Levante Van Gogh, Pissarro e Degas. Il giardino di Monet a Giverny è considerato un esempio classico di japonisme. Nella musica, Claude Debussy è uno dei più aperti all’influenza nipponica. Le idee di Okakura ispirano l’architettura di Frank Lloyd Wright e poi la corrente del minimalismo. Il filosofo tedesco Martin Heidegger e il poeta Ezra Pound lo hanno studiato e citato.
Dalla filosofia del tè Okakura vuole estrarre alcune lezioni sui rapporti tra Occidente e Oriente. Il lungo isolamento del Giappone ha aiutato questa civiltà a sviluppare l’introspezione, il suo “teismo” è un culto della bellezza scoperta in mezzo alle realtà sordide della vita quotidiana. Purezza, armonia, igiene, geometria morale, il senso romantico dell’ordine sociale, capacità di definire noi stessi in proporzione all’universo: questi sono gli ingredienti dell’Oriente.
Germi e scontro di civiltà
Le epidemie nell’immaginario della specie umana fanno parte dei segnali premonitori che un ordine del mondo sta morendo, dunque è inevitabile chiedersi se anche il Coronavirus annuncia la fine di un ordine mondiale. Se questa pandemia indica il crepuscolo tragico di un’epoca, quali imperi e quali civiltà ne usciranno sconfitti? Chi si risolleverà per primo e risulterà vincitore? Migliaia di anni di confronto-scontro fra Oriente e Occidente tornano di attualità e acquistano all’improvviso un senso nuovo, una rilevanza drammatica di fronte a questa prova.
Con le epidemie la Cina ha una familiarità antichissima: da quando esiste, la civiltà cinese è stata un incubatore di epidemie. Per una ragione semplice: è stata quasi sempre la più popolosa della Terra, con alte concentrazioni di abitanti, una densa promiscuità tra umani e animali che ne fa un laboratorio ideale per il trasferimento dei germi. La storia dell’Occidente annovera una lunga scia di epidemie venute dalla Cina. L’epidemia Antonina, originatasi nella Cina della dinastia Han, colpisce l’Impero romano nel 165 d.C. e lo devasta per quindici anni. Raccontata nelle memorie di Marco Aurelio e nelle opere di molti letterati dell’epoca, l’epidemia Antonina spopola l’Europa, alcune città rimangono disabitate dopo il suo passaggio. Tali sono la vastità e la capacità di distruzione da farla registrare dagli epidemiologi come la prima pandemia globale della storia.
Fra gli altri contagi “illustri” che dall’Oriente colpiscono l’Occidente, c’è la peste nera del Trecento raccontata da Giovanni Boccaccio nel Decameron. Gli storici la definiscono la Seconda pandemia globale e anche questa nasce in Cina.
La terza pandemia è ancora cinese, ed è sempre di peste bubbonica: ha il suo focolaio iniziale nel 1855 sotto la dinastia Qing.
Per rimanere nelle epidemie associate a capolavori letterari, quella della Morte a Venezia di Thomas Mann è di colera e viene dall’India, ancora lungo l’asse Oriente-Occidente.
Gli storici europei dei nostri tempi hanno analizzato l’epidemia Antonina come un acceleratore della fine dell’Impero romano. La peste nera del Trecento è stata considerata – insieme con altri fattori tra cui il cambiamento climatico – una delle levatrici del Rinascimento e di profondi mutamenti politici in tutta l’Europa. Quella del Seicento, raccontata da Manzoni ne I promessi sposi, precipita il declino dell’Italia.
Nicolas Poussin, La peste di Azoth, 1630-1631, Parigi, Louvre
Al di là delle suggestioni apocalittiche, perché le grandi epidemie da millenni possono davvero decidere il corso della storia umana? Ci sono spiegazioni razionali. Da un lato la calamità sanitaria ha una conseguenza diretta sulla popolazione, può decimare alcune aree geografiche, alterare gli equilibri demografici, sconvolgere i rapporti tra le fasce di età, prolungare l’indebolimento fisico di alcune categorie anche dopo la fase dell’emergenza. Poi c’è lo shock economico, che impoverisce ancor di più le comunità già fiaccate dalla malattia. Infine l’epidemia diventa un test, una prova sulla tenuta dei governi, di interi sistemi politici e sociali, sulla loro solidarietà, compattezza, efficienza. Per tutte queste ragioni, il mondo post-pandemia può essere profondamente diverso. Nazioni o imperi o civiltà ne escono stremati, ma alcuni concorrenti reggono meglio all’esame.
Gli shock traumatici nella storia spesso accentuano, rafforzano e accelerano delle tendenze che erano in atto, sommovimenti che stavano facendo tremare la superfice terrestre, originati da forze più profonde. Ben prima della pandemia, l’Asia stava ritornando un po’ alla volta a occupare quella preminenza che era stata sua per millenni. Il pendolo della storia oscillava nella sua direzione. Cinque secoli di dominio dell’uomo bianco, che avevano dato all’Occidente un’egemonia planetaria senza precedenti, si stavano comunque chiudendo sotto i nostri occhi. Una tragedia sanitaria seguita da un cataclisma economico possono accelerare quei processi di lungo corso.
Testi tratti da “Oriente e Occidente. Massa e individuo” di Federico Rampini, Einaudi, 2020
Qui di seguito l’intervento di Federico Rampini a Pordenonelegge 2020.
L’autore: Federico Rampini
Federico Rampini, corrispondente della «Repubblica» da New York, ha esordito come giornalista nel 1979 scrivendo per «Rinascita». Già vicedirettore del «Sole 24 Ore» e capo della redazione milanese della «Repubblica», editorialista, inviato e corrispondente a Parigi, Bruxelles, San Francisco, ha insegnato alle università di Berkeley, Shanghai, e alla Sda Bocconi. È membro del Council on Foreign Relations, think tank americano di relazioni internazionali. Ha pubblicato piú di venti saggi di successo, molti tradotti in altre lingue come i best seller Il secolo cinese (Mondadori 2005) e L’impero di Cindia (Mondadori 2006).